Mina Fan Club

 di Alessandro Basso

Chissà che voce aveva l’Eva biblica, chissà che voce aveva la prima donna uscita dalle caverne mentre chiamava il marito che sfiancava un mammut, chissà che voce avevano le streghe arse vive perché avevano cotto un coscio di agnello durante la Quaresima. Chissà che voce ebbe Saffo mentre poetava a Lesbo o che voce ebbe Ipazia mentre moriva uccisa, chissà che voce ebbe Giovanna d’Arco mentre incitava i suoi alla lotta. Io m’illudo che tutte le donne della storia – ipocritamente zittite da un mondo che fantasticava (e forse fantastica ancora) d’essere tutto al maschile – abbiano avuto la voce di Mina.

Voglio dire, non è detto che tutte le donne della storia cantassero come canta nostra Signora di Cremona, ma di certo realizzavano con la loro voce (forte o tenue che fosse) il miracolo che compie Mina ogni volta che esce una sua nuova canzone. Un miracolo che si rinnova e si spande sempre e comunque intorno al fattore della meraviglia. Come se per giorni, mesi, anni la nostra testa ascoltasse le altrui voci femminili ma senza udirle. Quando canta Mina, invece, odono le orecchie, ma ode anche la mente e ode il cuore. Non c’è posto per null’altro. La voce di Mina arriva, si diffonde e persiste. Perché Mina è l’essenza di tutto. L’essenza stessa della musica italiana.

Con Eva la Nostra chiude il cerchio del suo antico femminismo anti femminista. Almeno per ora. Lo chiude se è vero com’è vero che tutta la storia femminile, dacché fu tolta la costola ad Adamo e nacque la prima donna, è una lunghissima storia di coraggio di cui Mina è l’erede canterina dal ruggito maliardo. Anche questa volta è ritornata con un brano colto, anti commerciale, lontano centinaia di chilometri dalle mode moderne e dunque anti temporale, cioè eterno. Poco radiofonico, ci giuro, ma molto profondo. Molto commovente.

Mi sarei aspettato (e con me molti altri da ciò che leggo) qualche cosa di più, non dalla voce – non sia mai detto –, non nella scelta del brano che è davvero bellissimo e musicalmente fastoso, ma dalla revisione del progetto generale de Le Migliori. Sa davvero di poco questo re-incarto natalizio con una sola primizia dicembrina declinato in troppe versioni che puzzano più di commercio che di arte.

Eppure non posso fingere che questa canzone mi abbia lasciato indifferente, non posso dire che essa sia deludente, perché non lo è. Questa canzone è un lungo rimpianto a due voci che segue mirabilmente il bel notturno che mi parve d’intravedere già un anno fa nel nuovo MinaCelentano. Un rimpianto vecchio quanto è vecchio il peccato originale. Vecchio quant’è vecchio l’amore che condusse Adamo a seguire Eva nella follia di mangiare una mela. Un amore che si distrugge ma non muore, un amore che piange ma non langue, un amore che si rammarica ma non s’interrompe.

E se la vita è davvero quella cosa bella che io credo che sia, bene fece la prima donna a mangiare una mela, se mangiandola ci regalò un mondo dove non cantano solo gli uccelli del giardino incantato ma canta anche e soprattutto una Signora dalla treccia ramata che si chiama Mina.

La voce di Mina corre lungo i secoli, scende e sale, s’impoverisce e s’arricchisce, cresce e decresce, piange e ride, invecchia e ringiovanisce, asseconda e si ribella. Vive e rivive. Come rivisse quella povera giovane che – stanca di un paradiso pieno di mandorli in fiore e candidi loto senza macchie – non vedeva l’ora di assaporare una mela rossa e succosa per sfidare un vecchio padre che le diceva no.

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