A meno di una settimana dall’inizio del 70° Sanremo, l’amico Franco Zanetti ha ripescato dall’archivio di rockol.it un suo divertente “I Have a Dream” – risalente al Festival del 2004 in cui era membro della giuria – che volentieri vi riproponiamo…
di Franco Zanetti
Stanotte ho fatto un sogno.
Ve lo racconto.
Era domani sera, erano le otto di sera di martedì 2 marzo: la prima serata del Festival di Sanremo 2004. Uscito dal mio albergo, che dà su Piazza Colombo, mi stavo dirigendo verso l’ingresso della sala stampa, a lato dell’ingresso del Teatro Ariston. La cosa strana era che in piazza non c’era nessuno: tutto era aperto e illuminato – il McDonald’s, i bar, i teatrini all’aperto delle radio – ma non si vedeva anima viva, in giro. E il silenzio, rispetto al solito caos, era assordante. Camminavo perplesso verso l’angolo di corso Matteotti, e vedevo che anche di fronte all’Ariston non c’era nessuno: niente crocchi di persone disperate che malinconicamente cercassero di farsi inquadrare da una qualsiasi telecamera, niente ritardatari scioccamente vestiti da sera – donne in pelliccia e tacchi alti, uomini in abito scuro e cappotto di cammello – frettolosamente discesi dai taxi per non arrivare in teatro a spettacolo iniziato, niente vigili urbani innervositi. Persino nella vetrina del grande magazzino la postazione radiofonica, perfettamente allestita, non era presidiata dal solito disc jockey urlacchiante.
Mi avvicinavo all’Ariston, e il silenzio mi inquietava: non capivo cosa stesse succedendo. Avevo sbagliato giorno?
Poi dalla piazzetta di fronte al teatro vedevo sbucare il solito fisarmonicista, quello che da trent’anni staziona in corso Matteotti. Era lui, col cappello a larghe tese e l’abbigliamento pittoresco: ma non stava cantando la solita canzone, “Torna a Sanremo”. Suonava la fisarmonica, ma cantava un’altra frase: “Tanto è uguale”, continuava a ripetere. Mi veniva incontro, e mi accorgevo che non era il solito fisarmonicista, ma Michele Di Lernia. “Tanto è uguale”, cantava sguaiatamente. E mi metteva in mano un comunicato stampa con scritto soltanto: Aldo Palazzeschi, “Palazzo Mirena”. Gli chiedevo cosa stesse succedendo, ma lui ridacchiava e ripeteva ossessivamente: “Tanto è uguale”.
Allora mi infilavo nel portico dal quale si accede all’ascensore che porta in sala stampa, all’ultimo piano dell’Ariston. Anche lì niente uscieri, niente addetti alla sicurezza, niente hostess con il sorriso fisso e il mal di piedi altrettanto fisso. Salivo con l’ascensore, e arrivavo nella sala stampa. Deserta. I banconi erano ingombri di carta, i computer erano tutti accesi, ma non c’era nessuno. Il megaschermo lattescente mostrava immagini di spot pubblicitari, il Festival non era ancora cominciato.
Sempre più perplesso, ritornavo giù in strada e cercavo di entrare in teatro. Nessuna difficoltà: anche qui nessuna maschera, nessun controllo di biglietti, nessuno al bar. Salivo la scala di destra e andavo in fondo al corridoio, quello dal quale si accede ai camerini. E dall’interno del teatro sentivo provenire un brusìo eccitato, un chiacchiericcio d’attesa. Entravo nell’ultimo palchetto a destra del palco, e affacciandomi alla balaustrina vedevo…
La platea del teatro era gremita. Ma le persone che occupavano le poltroncine rosse, in ogni ordine di posti, non erano il solito pubblico indistinto di riccastri esibizionisti, imbucati e raccomandati, amici di amici di assessori. Le conoscevo tutte, quelle persone. Erano la mia “famiglia”: discografici, giornalisti, cantanti, impresari, manager, disc jockey, insomma tutta gente dell’ambiente. Tutte facce note. Alcune (poche) di amici, la maggior parte di conoscenti, alcune (poche) di nemici e persone che detesto – e dalle quali penso di essere ricambiato. Stavano lì, in attesa, parlottando fra loro. In prima fila i direttori generali delle multinazionali e delle associazioni di discografici, e fra loro – perfettamente a proprio agio – Pippo Baudo. Alla loro destra e alla loro sinistra, i Giornalisti Importanti, la compagnia di giro. Dalla seconda fila indietro, tutti gli altri, mescolati senza ordine logico: uffici stampa volonterosi e uffici stampa infingardi, direttori artistici creativi e direttori artistici imbelli, giornalisti appassionati e giornalisti copia-e-incolla, editori onesti e editori imbroglioni. La gente con la quale ho vissuto gli ultimi trent’anni, insomma.
Per qualche motivo che non mi riusciva di capire, non rispondevano ai miei cenni di saluto e ai miei gesti interrogativi. Era come se non mi vedessero. Ed erano tranquillissimi, in attesa dell’inizio della serata, come se fosse normale per loro starsene tutti lì anziché in sala stampa, nel retropalco, nella green room, nelle salette della TV degli alberghi a cinque quattro tre stelle – nel loro naturale habitat sanremese, insomma.
A un certo punto le luci del teatro cominciavano a smorzarsi, e sul palco si faceva il buio totale. Partiva una musica, che mi pareva di riconoscere, e dal fondo avanzava una figura che arrivata al proscenio cominciava a cantare:
“Con te dovrò combattere, non ti si può pigliare come sei
i tuoi difetti son talmente tanti che nemmeno tu li sai…”
Oh, cazzo! mi dicevo. Ma è lei, è Mina!
Era lei, era Mina. Bella come nei filmati in bianco e nero di “Studio Uno”, alta e snella, cantava “Grande grande grande” come se fosse la prima volta che la cantasse.
Il mio primo pensiero fu: “Hai visto Di Lernia, che colpo da maestro? Esce la ‘Platinum Collection’ e riesce a far venire Mina a Sanremo a cantare una delle canzoni incluse nell’antologia… Michele è proprio il più forte di tutti!”
E mentre Mina continuava a cantare (“Sei peggio di un bambino capriccioso, la vuoi sempre vinta tu; sei l’uomo più egoista e prepotente che abbia conosciuto mai…”) pensavo anche: “E hai visto Tony Renis? Altro che Ramazzotti, altro che Celentano… Ha convinto Mina a venire a Sanremo, e a cantare la canzone che lui ha scritto per lei… Adesso, dopo questo botto, chi potrà più dirgli che deve andare a casa?”.
La gente, in platea, era ammutolita, pietrificata. Nemmeno un applauso, nemmeno un respiro. Trattenevano tutti il fiato, come se non volessero spezzare un momento magico, un momento storico.
Ero lì anch’io paralizzato dallo stupore e dall’emozione – in fondo Mina l’avevo sentita cantare dal vivo solo una volta, il 23 agosto 1978, alla Bussola – quando sentii una mano battermi sulla spalla. Mi girai, e vidi Antonio Nocera. Era lui, senz’altro. La stessa faccia, la stessa barba, lo stesso sigaro spento. Stavo per chiedergli conto della sua presenza – del tutto incongrua, del tutto impossibile – quando lui mi fece segno di tacere e mi disse solo: “Appena ha finito la canzone, vai all’uscita: c’è una macchina che ti aspetta”.
Non gli chiesi nemmeno il perché: a Antonio Nocera sono stato abituato a obbedire senza discutere. Ma almeno qualche minuto di Mina me lo volevo ancora godere. “Ti odio, poi ti amo, poi ti odio poi ti odio poi ti amo,
non lasciarmi mai più
sei grande, grande, grande
come te sei grande solamente tu.
Non lasciarmi mai più
sei grande, grande, grande
come te sei grande solamente tu”
finì di cantare Mina, ma l’ultima frase suonò sorprendentemente miagolante. Mentre mi giravo per uscire dal palchetto e obbedire alle istruzioni di Antonio Nocera, mi resi conto che Mina non era più Mina, ma Platinette. E Platinette stava estraendo da un recesso della sua parrucca un accendino. E Platinette, ghignando perfidamente, faceva scattare l’accendino e dava fuoco ai tendoni del sipario, che di colpo s’infiammavano ruggendo.
Il grido all’unisono della platea lo sentii mentre infilavo di corsa la porta a vetri dell’Ariston. Fuori, come aveva detto Antonio, c’era una limousine con un autista dai capelli grigi; il motore era acceso, la portiera aperta. Ci saltai sopra, e la macchina si mise in moto prima ancora che potessi richiudere lo sportello. Angosciato, cominciai a chiamare col telefonino tutti i numeri degli amici che avevo visto seduti nella platea dell’Ariston: ma l’unica risposta che riuscivo ad ottenere, sempre dalla stessa voce registrata, era “Grazie per aver votato”.
Il viaggio durò poco più di un quarto d’ora. L’autista era abile e svelto, anche se ad ogni tornante in salita sputava un’imprecazione familiare (“Feeee-ga!”). Arrivammo alla piazzola belvedere sopra Sanremo, e lì scesi. Sembrava la scena della copertina di “For your pleasure” dei Roxy Music: l’autista (ecco chi era: Franco Mamone!) stava appoggiato ghignante alla portiera aperta, proprio come Bryan Ferry, e io – senza pantera al guinzaglio e senza tacchi alti e senza tubino in latex (mica sono Amanda Lear) – stavo lì, attonito e incredulo, a guardare la riviera sotto di me, dove fra le luci di Sanremo una colonna di fiamme e di fumo saliva altissima verso il cielo.
Frugandomi in tasca trovai il comunicato stampa che mi aveva dato il fisarmonicista-Di Lernia. E di colpo mi tornarono in mente le strofe della poesia di Palazzeschi, che avevo studiato al ginnasio: “In sera di festa, la veglia era piena, le fiamme terribili avvolsero il grande palazzo. Le fiamme arrivarono al cielo per tutta una notte, la notte che ognuno ricorda e si segna. L’aurora lo vide terribile mucchio di bragi roventi. Il cielo che s’ebbe di fiamme l’offerta per tutta la notte, rimase chiazzato di rosso per giorni e per giorni. E ancora ai tramonti vi sostano sopra vapori rossastri, vi sostan siccome a saluto, messaggi di fiamme lontane… E il vento pur anco solleva le ceneri ultime”.
Avevo appena partecipato al mio ultimo Festival di Sanremo – all’ultimo Festival di Sanremo della storia, pensavo. E non capivo se era più forte il dolore per la perdita di tante persone alle quali, in fondo, ero affezionato o il sollievo al pensiero che finalmente era finita, che non sarei stato più costretto a venire a Sanremo, che non ci sarebbe stato più, grazie a Dio – e a Platinette – nessun festival di Sanremo.
E’ stato a questo punto che mi sono svegliato, e mi sono ritrovato nella solita stanza numero 16 del solito albergo Colombo. E ho capito che l’incubo non era finito: non era ancora cominciato…