«“Il primo testo che ho scritto? La canzone del Piave!”. Rispondendo alla domanda rompighiaccio più banale e scontata che potessi fargli, Giorgio Calabrese dà subito prova della sua proverbiale autoironia. Lui, il Re dei parolieri italiani, il pioniere del rock tricolore, il Padre putativo della Scuola dei cantautori genovesi, il primo a rivestire di italici versi le grandi bossanove di Jobim e De Moraes, l’uomo che ha fatto cantare nella nostra lingua Charles Aznavour e Juliette Gréco (ma anche Sandie Shaw…), si rivela un Maestro anche nell’arte più rara e meno praticata dai suoi simili: quella di non prendersi troppo sul serio».
Cominciava così l’intervista che – complice suo figlio Christian, blogger e musicologo di talento – il più grande Poeta della nostra canzone ci concesse qualche anno fa nella sua abitazione romana. Ve ne riproponiamo qui di seguito altri gustosi estratti, invitandovi a (ri)leggervela in versione integrale nella fanzine numero 68...
«Il testo di Arrivederci è nato sul tavolo della cucina di casa mia, ancor prima – caso più unico che raro nel nostro sodalizio – che Umberto componesse la musica. Conoscendo il carattere romantico ed irascibile del mio amico, sempre pronto ad imbarcarsi in burrascose storie d’amore che finivano quasi sempre in tragedia, scrissi apposta quei versi che parlavano di un addio senza lacrime, anzi sorridente. Forse per indicargli una nuova strada, chissà. Di lui conservo un ricordo dolcissimo: era fragile, vulnerabile, capace di incredibili gesti di generosità anche con chi assolutamente non li meritava. Avevamo iniziato a comporre canzoni insieme nel 1952, per un musical la cui trama era in realtà solo un pretesto per proiettare i protagonisti in una serie di quadretti ambientati in vari Paesi, con titoli come Carnevale a Rio, Luna nuova sopra il Fuji Yama, Appuntamento a Madrid, in buona parte poi recuperati e incisi negli anni successivi. Dopodiché ci siamo persi per un po’ di vista, fino a quando, nel ’59, la nostra Arrivederci è arrivata alle orecchie di Don Marino Barreto che l’ha incisa su un 45 giri della Philips con il successo che sappiamo. In quegli stessi mesi, poi, ebbi un’ulteriore botta di fortuna firmando, con Pino Massara, I Sing Ammore per Nicola Arigliano, canzone-manifesto del gallismo italico, tanto più ironica e divertente se si pensa che Nicola, pur essendo un fantastico crooner, non aveva certo l’aspetto di un latin lover…».
«Mina? La incontrai per la prima volta a Milano, alla fine del ’59, in una saletta della Ariston occupata da Davide Matalon, da un pianoforte e per il resto solo da lei: una stangona con il foulard in testa e la gonna sopra il ginocchio. “Ma chi sei, la Statua della Libertà?”, le chiesi, frastornato da tanto ben di Dio. Lei doveva uscire con un nuovo 45 giri. Una delle due facciate – se la A o la B lo si sarebbe deciso in seguito – era stata già trovata: un pezzo molto “americano”, swingato, intitolato La notte, che avevo scritto con Reverberi. Per l’altro lato puntavamo su una canzone composta dal nostro amico Gino Paoli, Il cielo in una stanza, che avevamo ascoltato decine di volte, rimanendone conquistati, nella sala audizioni della Ricordi, tra gli sbuffi del patron Mariano Rapetti che non ne poteva più di continuare a sorbirsela. Sia pure dopo qualche piccola perplessità iniziale, il pezzo finì per conquistare anche Mina e il suo arrangiatore Tony De Vita. Peccato soltanto che il disco uscì con due “falsi” clamorosi nei credits editoriali: Gino Paoli, che ancora non era iscritto alla SIAE, depositò Il cielo in una stanza a nome di Toang (pseudonimo di Renato Angiolini) per la musica e di Mogol (Rapetti junior) per il testo; quanto a me, essendo legato in quel periodo ad un editore che tratteneva il 25% dei miei introiti, per evitare beghe intestai La notte all’amico (nonché ex-compagno di scuola, con Isa Barzizza) Franco Franchi, omonimo del comico siciliano e, in seguito, notaio in diverse trasmissioni TV…».
«Massimiliano? Bravo ragazzo e grande professionista. Fu Mina, nel ’91, a telefonarmi dicendomi che c’erano dei testi da realizzare su una serie di brani musicali composti dal figlio. Lì per lì, capii che li avrebbe cantati lei. Solo in un secondo tempo ho appreso che quelle canzoni erano destinate al debutto di Max come cantautore. Dopodichè, lui venne un paio di volte a Roma per definire meglio i dettagli del progetto. E nacquero le varie Come stai, Robinson, Per avere te, Torno venerdì, in seguito riprese anche da Mina. Belle canzoni che, forse, avrebbero meritato maggiore attenzione da parte del pubblico. Io stesso, in fondo, avrei dovuto dedicarmici un po’ di più…».
«Se potessi condensare la mia vita in un film di tre minuti, la canzone che sceglierei come colonna sonora sarebbe certamente The Nearness Of You di Oggy Carmichael. Quanto alla musica dell’addio – ormai l’ho detto a tutti – vorrei che fosse il tema da C’era una volta il west. Il cd è pronto accanto al letto». (…)
Autore: loris